S_postarsi
Mi ha sempre colpito il meccanismo detrattivo che la consonante «s» esercita sui verbi a cui s’attacca in modalità parassitaria, ribaltandone il significato semplicemente precedendoli, piazzandosi davanti a loro con un atto d’imperio, frustrandoli, impedendogli d’esprimersi (anzi, imponendogli di negare se stessi); allo stesso modo in cui, quando cade, li libera di schianto dal proprio peso.
Non ci vuole chissà quale fatica a destabilizzare un concetto, svalutarlo: basta (neanche la parola, come recitava un vecchio carosello, ma) la s. È un prelievo linguistico alla fonte, che con fenomenale immediatezza (scavalcando addirittura la necessità di elaborare un termine contrario) prosciuga il lavoro della parola e la disarticola, la svuota; qualche volta la umilia.
Qualche esempio: sdrammatizzare, slegare, smettere, smontare, smobilitare, smadonnare (il verbo madonnare non credo esista, però è l’attività dello smadonnamento che lo rende teoricamente possibile, per cui lo lascio), spacchettare, sparecchiare, spettinare, spoliticizzare, sprovincializzare, spersonalizzare, squalificare, sradicare, sragionare, sregolare, svecchiare, svelare, svestire. E si potrebbe andare avanti parecchio a lungo.
Non fa una certa impressione? Come può una semplice lettera permettersi un simile golpe linguistico? Uno, anzi una, arriva, ti si mette davanti, ti usa come rimorchio (lei, a te, che te ne stavi tranquillo per i fatti tuoi e sei anche grande e grosso, oltretutto), e ti dice (soprattutto lo dice agli altri, che le danno anche retta) che da quel momento (o almeno, finché lei non si scrosta da lì) tu non vuoi più dire quello che volevi dire fino a un momento prima: che non ti chiami più così, in un certo senso. Ti marchia, ecco. Ti deporta.
Oh, lo so che vi sembra una buona metafora del rapporto uomo-donna, ma uscite dal personale e cercate di restare sul piano prettamente linguistico: vi sembra bello, tutto questo? Vi sembra così facile da mandare giù? A me no.
La parola spostarsi, però, è bellissima. M’intriga come pratica dell’agire. Perché fa l’apologia della mobilità. Perché ti permette di cambiare continuamente prospettiva sulle cose. Di non essere mai dove ci si aspetterebbe di trovarti. E il non essere mai dove ci si aspetterebbe di trovarti è un modo di rendersi liberi. Soprattutto desiderati. L’unico problema è che il rendersi desiderabili tramite spostamento è un effetto che si produce solo se ti viene naturale, spostarti. Se non lo fai apposta. Perché se fai il furbo se ne accorgono.
Ma quando scrivi ti sposti eccome. Perché, a pensarci sopra, il mestiere della scrittura è fatto essenzialmente di spostamenti, d’inquietudini, di serenità costruite con fatica. Se quando scrivi non ti sposti, se tieni troppo rigidamente la rotta della storia che racconti, se ogni tanto non ti stanchi almeno un po’ delle cose che hai intorno, di come le hai disposte e di come probabilmente le disporrai, se non ti stanchi di te stesso, insomma, e quindi non provi a prendere qualche percorso laterale senza sapere dove ti porterà, al limite anche a stamparti sulle rocce, finisci per soffiare aria nell’aria.
Il problema principale a questo riguardo è che se uno scrittore imparasse a spostarsi nella vita come si sposta nella scrittura, probabilmente non scriverebbe più. Chissà se gli scrittori che smettono di scrivere lo fanno per questo.
Diego De Silva
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