Mio nonno mi chiamava solo una volta l'anno: per il mio onomastico.
La sera del 14 Febbraio squillava il telefono di casa dei miei mentre eravamo tutti a tavola e mia madre, che sedeva alla mia destra e alla destra di mio padre, mi lanciava un'occhiata e diceva: "Vai a rispondere, è tuo nonno che ti fa gli auguri". Io, 'a verità, entravo un po' in panico: anche a 900 km di distanza avvertivo quella sensazione di disagio e soggezione che mio nonno suscitava in me di persona, quando per tre settimane l'anno stavamo accampati a casa sua in agosto, per quelle che sono state le mie vacanze estive, nei primi 14 anni della mia vita.
Sì, perchè mio nonno era un omone: non altissimo ma molto grosso, aveva un pancione e delle braccione e manone (o almeno così mi sembravano quand'ero una bambina timida e silenziosa al limite dell'asocialità), che quando mi si avvicinava per rivolgermi la parola nel suo dialetto grezzo, scevro di fronzoli e tenerezze, mi faceva sentire smarrita e mi paralizzava finchè qualcuno non veniva in mio soccorso. Però, quando la sua bocca accennava appena a distendersi in un sorriso, molto raro con i bambini, ti faceva squagliare ogni liquido corporeo.
Non è che non capissi il napoletano, anzi: era la "lingua" che i miei genitori usavano in casa da sempre. Quello che mancava tra noi era la comunicazione affettiva. Non capivo quanto fosse a suo modo affabile anche se burbero. Nei miei incubi di bambina, era colui che appena nata, dopo giorni di pianti isterici che mia madre placò infilando i plasmon nel biberon del latte caldo, esasperato sbottò: "Ma perchè non la vendi al mercato 'sta creatura!?", con quell'ironia paradossale tipica del napoletano, altrimenti detta "arte d'arrangiarsi". Crescendo, quando iniziavo ad acquisire carattere e sicurezza in me stessa, stabilimmo anche un rapporto onesto e quasi alla pari: ricordo che lo stupivano la mia irruenza e determinazione.
Insomma, mi alzavo e andavo in corridoio dove stava il telefono fisso, non esistevano ancora i cellulari e nemmeno avevamo il cordless:
"Pronto?"
- Valantì? Sei Valantì? (perchè in napolenato "en" si pronuncia con un nasale "an", come in francese)
"Sì, nonno, sono io, ciao"
- Eh... oggi è 'u nomme tuo, è vero? (è il giorno del tuo nome)
"Sì, nonno, è San Valentino"
- Auguri Valantì!
"Grazie, nonno"
- Stai bene?
"Sì, 'u no', sto bene e tu?" (sì, nonno)
- Anch'io, anch'io. Allora stamm' buono e saluta a mamma e papà
E riagganciava.
Faceva il cuoco sulle navi con cui ha girato tutto il mondo. Da quando era in pensione, usciva in barca tutte le mattine alle 5 a pesca di polpi. Ne prendeva sempre qualcuno, rientrava in porto che il mercato del pesce era nel vivo, faceva il giro dei banchi e tornava sempre a casa con i frutti di mare freschi che mangiavamo a pranzo, quasi sempre crudi, solo spruzzati di limone.
Mio nonno "sapeva" sempre di pesce e acqua salata, aveva la pelle cotta dal sole, il volto rugoso, gli occhi chiarissimi e curiosi, una grande testa pelata. Lo chiamavano Rafele 'O Capicchione (Raffaele Il Capoccione). Si fermava e ti guardava con l'espressione interrogativa di chi ha ancora voglia di conoscere altri dettagli.
Tutti i suoi nipoti primogeniti maschi hanno preso il suo nome, tranne mio fratello.
Tutte le nipoti femmine hanno preso il nome di mia nonna, tranne me.
Niente di strano: nell'economia di quella famiglia noi eravamo "I Torinesi", gli unici nipoti nati in una città diversa da Napoli.
Mio nonno è morto nel 1998. Da allora non sento più la sua voce allegra che piomba in mezzo alla cena di San Valentino per dirmi solo: "Valantì, sei tu? Auguri!"
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