La tua mano sulla mia schiena,
un tocco lievo ma colmo di forza,
squarciò il manto di solitudine che mi premeva sul petto.
"Vieni con me? Ho questa cena ma non conosco nessuno, mi fai compagnia?"
In auto verso il ristorante ti parlai di mio fratello:
eri il primo a cui raccontavo tutto.
Piena di pudore e vergogna, non avevo trovato il coraggio di confidarmi con nessuno. Da settimane correvo in tutte le direzioni, placavo gli animi, rassicuravo persone, parlavo con avvocati, terapisti, fidanzate, genitori. Risolvevo problemi, ascoltavo cuori sofferenti e increduli, saltavo pasti, dormivo a stento, annullavo pensieri e custodivo segreti.
Mi sentivo forte, carica di energie, uscivo la sera per non pensare, mi mischiavo alla gente e mi lasciavo attraversare dai loro umori, le loro vite, per non sentire la mia che mi martellava dentro, che mi si addossava a peso morto sulle spalle e mi toglieva il fiato.
Tu mi ascoltavi, nessun giudizio, solo il tuo affetto incondizionato.
Avevo il giacchino di velluto arancione, la gonna nera arricciata, una calda pashima sulle spalle. Tu avevi il giubbotto, rarissimo era vederti senza il tuo cappellino e la felpa. Passammo la serata tra musica, chiacchiere e risate, mentre attendevo quella telefonata. Quando arrivò, mi scusai e mentre mi alzavo, tu appoggiasti la tua mano sulla mia schiena.
Fu il gesto più affettuoso che ricevevo da tempo.
In qualche modo riuscii a risolvere, tornai dentro la sala, dove tu mi aspettavi, preoccupato, ansioso di vedere nel mio sguardo un segno distensivo.
Suonava un pessimo gruppo da pianobar, ridevamo ogni volta che intonava l'ennesimo classico italiano, quando suonarono TTD nessuno lo riconobbe, a parte noi.
Sorridemmo, complici.
Finimmo all'Hiroshima:
per me un mojito,
per te il solito cuba libre.
Nella sala più appartata suonavano reggae, poche persone, io mi muovevo a ritmo sullo sgabello, tu mi osservavi con un sorriso sarcastico stampato in volto, sembravi sereno, con quel retrogusto caustico che portavi sempre nello sguardo.
Una serata speciale,
un pezzo di intimità assaporata con delicatezza,
quel modo leggero di vivere che avevi solo tu.
Perdonami!
Per essere stata debole, fragile e sfuggente.
Impaziente prima e poi irruenta.
Perdonami!
un tocco lievo ma colmo di forza,
squarciò il manto di solitudine che mi premeva sul petto.
"Vieni con me? Ho questa cena ma non conosco nessuno, mi fai compagnia?"
In auto verso il ristorante ti parlai di mio fratello:
eri il primo a cui raccontavo tutto.
Piena di pudore e vergogna, non avevo trovato il coraggio di confidarmi con nessuno. Da settimane correvo in tutte le direzioni, placavo gli animi, rassicuravo persone, parlavo con avvocati, terapisti, fidanzate, genitori. Risolvevo problemi, ascoltavo cuori sofferenti e increduli, saltavo pasti, dormivo a stento, annullavo pensieri e custodivo segreti.
Mi sentivo forte, carica di energie, uscivo la sera per non pensare, mi mischiavo alla gente e mi lasciavo attraversare dai loro umori, le loro vite, per non sentire la mia che mi martellava dentro, che mi si addossava a peso morto sulle spalle e mi toglieva il fiato.
Tu mi ascoltavi, nessun giudizio, solo il tuo affetto incondizionato.
Avevo il giacchino di velluto arancione, la gonna nera arricciata, una calda pashima sulle spalle. Tu avevi il giubbotto, rarissimo era vederti senza il tuo cappellino e la felpa. Passammo la serata tra musica, chiacchiere e risate, mentre attendevo quella telefonata. Quando arrivò, mi scusai e mentre mi alzavo, tu appoggiasti la tua mano sulla mia schiena.
Fu il gesto più affettuoso che ricevevo da tempo.
In qualche modo riuscii a risolvere, tornai dentro la sala, dove tu mi aspettavi, preoccupato, ansioso di vedere nel mio sguardo un segno distensivo.
Suonava un pessimo gruppo da pianobar, ridevamo ogni volta che intonava l'ennesimo classico italiano, quando suonarono TTD nessuno lo riconobbe, a parte noi.
Sorridemmo, complici.
Finimmo all'Hiroshima:
per me un mojito,
per te il solito cuba libre.
Nella sala più appartata suonavano reggae, poche persone, io mi muovevo a ritmo sullo sgabello, tu mi osservavi con un sorriso sarcastico stampato in volto, sembravi sereno, con quel retrogusto caustico che portavi sempre nello sguardo.
Una serata speciale,
un pezzo di intimità assaporata con delicatezza,
quel modo leggero di vivere che avevi solo tu.
Perdonami!
Per essere stata debole, fragile e sfuggente.
Impaziente prima e poi irruenta.
Perdonami!
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