giovedì 25 dicembre 2014

buonataleuncazzo


In questi giorni ogni cosa che tocco si rompe o si guasta, ogni piccolo movimento si trasforma in inconveniente o contrattempo. Non mi innervosisco più, ho capito che gli ultimi scampoli di anno devo lasciarli scorrere così come vengono, senza oppormi nè resistere, senza nemmeno chiedermi "Perchè?". Perchè così è, a volte.

Uno degli anni peggiori di sempre, l'anno delle torture psicologiche. Proprio quando mi sentivo più forte, più fiera, più in pace col mondo. Proprio quando credevo più amorevolmente in me e in chi avevo intorno, sbagliandomi come mai prima d'ora. L'anno delle illusioni, del ridimensionamento più brutale, l'anno della sconfitta su tutti i fronti, l'anno in cui alla fine mi sono chiesta quanto cazzo valgo veramente e la risposta mi ha spaventata. Se dovessi fidarmi solo dei feedback dall'esterno.

Una persona che stimo mi ha detto: "Sai cos'è? Il mondo intorno a noi è andato da qualche parte e noi no, perché non ci interessava e sentiamo il morso della solitudine. E scriviamo per provare almeno a rompere l'accerchiamento".

Non so se sia vero o solo consolatorio. So che scrivo da quando avevo 12 anni. Ancora lo ricordo (e lo conservo) il primo quaderno a righe color lilla, con Gatto Silvestro e Tweety in copertina, dove ho iniziato a mettere nero su bianco quello che accadeva. Perchè volevo fermare il tempo, temevo di dimenticare perchè già non ricordavo più i primi anni della mia vita. O molto poco, solo episodi sottoforma di flash nemmeno troppo attendibili.

La mia scelta l'avevo già fatta, ma inconsapevole.

Eppure se torno con la memoria fino laggiù, rivedo una bambina taciturna e schiva, timida e piena di vergogna, che se ne stava in camera sua, chiusa, ascoltava musica e ballava, o costruiva rifugi con giocattoli di legno; si inventava una casa dentro la casa nel bagno lungo e stretto. Le ante dei mobiletti alti piazzati di fronte ai sanitari, una volta aperte, vi arrivavano giusto a filo, così da trasformarsi in porte, nella mia immaginazione, con cui chiudere fuori gli altri. Quella diventava la mia vera casa. Ci passavo le ore. Nel frattempo, il resto dei bambini del quartiere, capitanati da mio fratello di quattro anni più vecchio di me, scapicollava per i cortili dei nostri palazzi. Lui sempre sorridente, pieno di graffi e bozzi, la pelle arrossata dal sole; io pallida e silenziosa, con l'aria di chi sembra sempre da un'altra parte.

Mi succede ancora oggi, la mattina quando mi sveglio, di sentirmi come se arrivassi lontanissima da una qualche dimensione sconosciuta a tutti gli altri, tanto da impiegare minuti e minuti a ritrovarmi di nuovo a mio agio nel mio corpo. Oppure quando mi rintano nella mia cuccia per giorni fintanto che qualche esigenza inderogabile come il lavoro non mi costringe a rimettere il naso fuori. Perchè ora ce l'ho davvero una casa vera tutta mia. Quando abitavo dai "miei" e la sera mi mettevo a letto, facevo sempre un gioco: mentre mi addormentavo immaginavo come sarebbe stata la mia casa. Mi inventavo la planimetria, la dimensione delle stanze e la loro esatta ubicazione, l'arredavo e la vivevo pezzo dopo pezzo, mentre nella mia testa la costruivo, ogni volta diversa, ogni volta aggiungendo un dettaglio o stravolgendola completamente dalla sera prima. E al risveglio, la mattina dopo, ritornavo al punto in cui avevo interrotto il progetto e così scoprivo quanto avevo impiegato ad addormentarmi. A volte non arrivavo nemmeno ad entrarci, altre invece mi accorgevo di aver trascorso ore a immaginarla.

Crescendo le attività sono diventate leggere e scrivere, poi andare in moto, poi nuotare, ma la scelta di non andare insieme al resto del mondo non è mai stata messa in discussione. Dev'essere per questo che mi sono sempre sentita, e mi sento, una disadattata. E non importa quante volte, a fasi alterne, ho avuto slanci verso il mondo e ho provato a girarci insieme o a portare il mio modo di camminare, a contagiare o a lasciarmi fare. Sono sempre tornata qui.

Tutto questo dopo un pranzo di natale con mia madre che è stata una battaglia di risentimenti e lacrime, mista a rabbie latenti e dolori che hanno negli anni logorato lei e cambiato me. Dentro quella casa si generano ancora sentimenti contrastanti e i pezzi di passato ti colpiscono sempre con inusitata forza, anche quando credi di aver costruito barriere insormontabili. Gli episodi possono essere nuovi e diversi ma lo schema, cristallizzato dal tempo, è sempre lo stesso. Mi allontano perchè è l'unica speranza che ho sempre nutrito: sottrarmi al contagio aumentando la distanza fisica e in virtù di questo, il tentativo di metterci la solita pezza passa attraverso una serie di sms che non credevo lei fosse in grado di digitare.

Mi manca mio padre.
Mio padre che mi ascoltava.
Mio padre che si preoccupava.
Mio padre che non mi lasciava andare.
Mio padre che ci provava.
Mio padre che andava oltre la mia rabbia.
Mio padre che mi consigliava.
Mio padre che mi dava forza quando non comprendeva.
Mio padre che mi sentiva.
Mio padre che mi apparteneva.
Mio padre che gli appartenevo.

Ovunque tu sia, che la terra ti sia lieve.

[questo pezzo è stato scritto con in testa una persona a cui ho trasmesso l'immagine di donna che chiacchiera ma non agisce. anche se so di non essere così, non ho provato a convincerla o a dimostrarle il contrario. ma resta per me, a prescindere, un'anima affine di cui non voglio fare a meno. anche se penserà che sono troppo eterea]