martedì 3 febbraio 2015

Takeoff

- Ti ricordi quando andavamo a vedere gli aerei decollare?
“No”.
- Ma come no!? Andavamo a piedi fino alla stazione, prendevamo la corriera che porta all’aeroporto e ce ne stavamo per ore dietro la recinzione più esterna in attesa che un aereo decollasse. Poi lo seguivamo muso al cielo finché non scompariva virando per la sua a noi ignota destinazione. Io immaginavo viaggi senza ritorno in isole caraibiche, mi vedevo disteso su spiagge bianche a prendere il sole e sorseggiare cocktail freschi mentre dal piccolo chiosco di palme arrivavano le note calde di una musica tribale.
“Io non lo ricordo”.
- Beh, è normale, questo non puoi ricordarlo perché io lo immaginavo ma non lo dicevo a voce alta, un po’ mi vergognavo di avere sogni così semplici. Tu eri così seria, stretta nel tuo cappottino, il muso imbronciato e gli occhi attenti, guardavi tutto con l’aria di una bambina già cresciuta che sapeva bene quello che voleva, e quello che volevi era sicuramente qualcosa di più importante e profondo dei miei sogni frivoli di spiagge e divertimento.
“Ah ecco, ora capisco perché non ricordo di aver passato tante ore a guardare gli aerei volare: ero troppo piccola”.
- Sì, eri ancora una bambina, ma credevo che te lo ricordassi, tu eri diversa dalle altre bambine. Come ora sei diversa dalle altre donne.
“Ah sì? E cosa avevo di così diverso quand’ero una bambina?”.
- Non ricordi nemmeno questo?

Lei mosse appena il viso smunto in segno di diniego, negli occhi un’espressione spazientita mista a curiosità. Finchè la seconda fosse perdurata avrebbe tenuto a bada la prima: non le piacevano i giri larghi, le persone che avevano bisogno di preparare terreno e atmosfera per affrontare un argomento importante. Lei era molto più diretta, andava subito al sodo ed ora avrebbe volutohe suo padre facesse lo stesso, perché capiva che stava cercando di dirle qualcosa di serio, forse spiacevole, e questo tergiversare la rendeva nervosa. Temeva di non essere in grado di sopportare il peso della notizia che suo padre si preparava a darle. O forse era lui a dubitare che lei fosse abbastanza forte. E questo la indisponeva ancora di più. Che suo padre non si fidasse del suo carattere era proprio inaccettabile, soprattutto adesso che le stava facendo questo bel discorsetto su quanto lei fosse stata una bambina diversa dalle altre.

- Quando eri piccola, diciamo intorno ai 6 o 7 anni, mentre gli altri bambini si riunivano in cortile a giocare, tu te ne stavi in camera tua, con la porta chiusa. Ogni tanto tua madre ed io ci affacciavamo di soppiatto per spiare cosa combinassi. Al di qua della porta aleggiava un alone di mistero, non sentivamo rumori né movimenti ma allo stesso tempo non eravamo preoccupati: avevamo come la sensazione che tu fossi tranquilla e al sicuro, che non ci fosse nulla di strano se da una stanza chiusa in cui ti trovavi tu, non giungesse nessun segno di vita. Tu eri fatta così: sapevi stare da sola, occupare il tempo e lo spazio col tuo corpicino piccolo e insonorizzato. Le volte in cui abbiamo infilato la testa nella tua stanza, ti abbiamo vista danzare al suono di una musica che non sapevamo dove avessi preso, come ti fossi procurata. Eppure era lì, suonava nel giradischi e tu danzavi al ritmo di quel suono inventando passi e movenze eleganti e leggere, ma lontane da qualunque stile avessimo mai visto.

“Uhm, fece lei, e non avete mai pensato di iscrivermi a un corso di danza vera?”
- Eravamo impreparati, spiazzati da questa tua inclinazione. Pensavamo che la danza fosse una passione per ricchi e noi non lo eravamo.
“Uhm … ma non avete mai provato a informarvi sui costi, a chiedere a qualcuno?”

Suo padre scosse la testa, strinse un po’ le labbra come faceva quando si sentiva mortificato e non se la sentiva di inventare scuse, non con lei. Con lei era sempre stato sincero, le aveva sempre parlato col cuore aperto, senza risparmiarle nulla ma senza nemmeno addolcire qualcosa che non lo fosse da sé. Era l’unica maniera che conosceva perché l’aveva sempre considerata una persona adulta e non aveva mai sentito la necessità di fare giri di parole con lei.
“Però mi avete iscritta in piscina anche se inventavo un mal di pancia diverso tutte le volte che avevo una lezione. E alla fine non ho imparato a nuotare”.
- Come no! Nuoti benissimo!
“Certo che nuoto benissimo, ma ho imparato da sola, al mare. La piscina non mi è servita a nulla. La odiavo. Odiavo l’odore di cloro che mi investiva appena varcavo la soglia dell’edificio. Odiavo il pavimento freddo e scivoloso a bordo piscina, su cui facevamo riscaldamento prima di entrare in acqua. Odiavo il sapore dell’acqua che mi bruciava in gola ogni volta che “bevevo”. E “bevevo” sempre… Odiavo l’umidità che mi restava appiccicata ai capelli e alla pelle, quando mi rivestivo di fretta dopo la doccia, perché c’era il pulmino che partiva ad una certa ora e non potevamo farlo aspettare”.
- Mamma mia! E che era ‘na tortura ‘sta piscina?
“Dici che ho esagerato?” lo disse col tono ironico che usava sempre per sdrammatizzare dopo aver enfatizzato i difetti di qualcuno o qualcosa per suscitare una reazione, tenere vivo l’interesse del suo interlocutore mentre raccontava. Portarlo anche all’esasperazione se era il caso. Suo padre conosceva i suoi trucchi e non ci cascava più. Sapeva che stava drammatizzando per farlo sentire in colpa di proposito e poi dirgli semplicemente che non avrebbe seguito nemmeno un corso di danza da bambina perché era troppo pigra già allora per resistere ad allenamenti così duri.

“Comunque scherzavo, pa', non credo che avrei retto agli allenamenti di danza vera e poi ero rotondetta da piccola, sai le risate con un tutù, magari rosa! Oddio no! Per fortuna che non mi avete iscritta ad un corso di danza” esclamò ridendo mentre si immaginava chiusa dentro un costume troppo stretto. “Ma tu, cosa volevi dirmi quando hai iniziato a parlare di aerei e decolli, poco fa?”.
- Ma niente, rispose suo padre vago e per nulla convincente. - Volevo solo ricordarti che di aerei ne partono in continuazione. Ma ne arrivano altrettanti.

Lei non si voltò a guardarlo, non ne aveva bisogno. Poteva indovinare i suoi occhi lucidi e sapeva che l'avrebbe imbarazzato. Si limitò a prendergli la mano, stesa lungo il suo corpo, a pochi centimetri dalla sua. E la strinse. Forte.


A Guido, che tra pochi giorni è di nuovo il suo compleanno ma non lo festeggerà. A mio padre, di cui un giorno di alcuni anni fa, col sentimento di malinconia generato da un vero decollo, mi sono immaginata l'espisodio che ho scritto, come se lui avesse avuto il tempo di prepararmi all'evento della sua scomparsa. E a tutte le persone che ho perso, fisicamente e metaforicamente, per scelta oppure no.